Della
serie: “ non ci credo ma è vero”. Il direttore di un giornale locale assieme al
suo assistente giornalista sono stati denunciati per il reato di diffamazione a
mezzo stampa per il sol fatto di aver intervistato un tizio che ha apostrofato
un signore con l’epiteto “infame” è il tutto riportato integralmente nell’articolo.
Da qui tutta una serie di doglianze giudiziarie.
La
questione è un po’ complessa ma cerchiamo di fare chiarezza. Il diffamato ha
denunciato in prima istanza tutti e tre: direttore, giornalista e diffamatore.
Poi evidentemente qualcuno li avrà fatto notare che il direttore e il giornalista benché estensori dell’articolo
pubblicato in realtà non erano colpevoli di nulla, tanto è vero che il denunciante
ha rimesso la denuncia querela nei confronti dei due giornalisti. Quindi l’unico
responsabile doveva essere il diffamatore che aveva pronunciato la parola “infame”;
difatti è stato condannato per il reato di diffamazione. Tutto chiaro!.
Ma,
c’è un ma, e anche imponente. Il condannato fa ricorso in Cassazione adducendo
in sua difesa l’assunto giuridico,
secondo cui, poiché è stata rimessa
querela in favore dei giornalisti, dunque non condannabili, anche lui doveva
godere della stesso “privilegio”, cioè: se non stati condannati i giornalisti
non lo devo essere anch’io”. E vi pare poco!
La
Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 10 gennaio 2022 n.319 – nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui
erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto non estensibili
all’intervistato gli effetti liberatori della remissione di querela presentata
nei confronti del giornalista, data l’autonomia delle fattispecie criminose a
ciascuno imputate – ha invece affermato il principio secondo cui nell’ipotesi
di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di
un’intervista, la remissione di querela effettuata nei confronti del
giornalista estende i suoi effetti anche alla posizione dell’intervistato, in
ragione della identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i
due soggetti, e, quindi, dell’applicabilità della norma posta dall’art.155 c.p. 2° comma, senza che
rilevi la mancata contestazione formale del concorso criminoso tra gli autori
dell’unica condotta criminosa.
Avete capito? Il diffamatore se l’è scampata per un
cavillo cioè grazie alla remissione di querela poiché, in caso contrario, sarebbero
stati condannati tutti e tre.
Il caso ha sollevato ovvie polemiche.
Franco Marella